31 Mar Mobbing e straining: due facce di una stessa medaglia.

Le dinamiche del mondo del lavoro, in continua e veloce evoluzione, molto spesso prestano il fianco a discutibili comportamenti da parte dei datori di lavoro che assai sovente vengono accusati di mobbing da parte dei lavoratori.

Lecito domandarsi allora se qualunque comportamento ostile da parte del datore di lavoro integri gli estremi del mobbing con conseguente diritto del lavoratore al risarcimento del danno.

Come noto, l’imprenditore è responsabile civilmente dei danni provocati al lavoratore per il comportamento “mobbizzante” perché viola il c.d. diritto alla sicurezza sul posto di lavoro sancito dagli articoli 2, 32 e 41 della Costituzione e dall’art. 2087 del codice civile.

Nello specifico, l’art. 2087 cc che così recita: “L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”.

Con il termine mobbing si intende, nel dettaglio, quella condotta tenuta dal datore di lavoro – ovvero anche da un superiore gerarchico del prestatore di lavoro subordinato – sistematica e protratta nel tempo e che abbia il contenuto di comportamenti ostili e prevaricatori nei confronti del lavoratore, anche con una possibile mortificazione ed emarginazione del prestatore di lavoro, che ledono l’equilibrio psico – fisico dello stesso provocandogli anche un danno alla salute.

Giova, tuttavia, sin da subito evidenziare come, ai fini della configurabilità del mobbing lavorativo, l’elemento qualificante – che dovrà, in ogni caso, essere rigorosamente provato da chi assuma di aver subito la condotta vessatoria – va ricercato non nell’illegittimità dei singoli atti bensì nell’intento persecutorio che li unifica.

Sicchè la legittimità degli atti e/o provvedimenti in sé può rilevare solo indirettamente in assenza dell’elemento soggettivo che deve sorreggere la condotta unitariamente considerata.

In altri e più chiari termini per aversi mobbing deve sussistere una precisa e preordinata “strategia” del datore di lavoro che si esplica attraverso in una serie di comportamenti di natura persecutoria e/o vessatoria nei confronti del lavoratore danneggiandone la sua integrità psico – fisica che, una volta provati dal lavoratore, obbligano il datore di lavoro al risarcimento del danno.

Va segnalato, inoltre, come, laddove detti comportamenti culminino nell’intimazione del licenziamento e sia rigorosamente provato che il licenziamento sia l’ulteriore conseguenza di una serie di comportamenti caratterizzati da un intento persecutorio, il licenziamento viene qualificato come discriminatorio con conseguente obbligo di reintegra nel posto di lavoro del lavoratore e la corresponsione di un’indennità risarcitoria da parte del datore di lavoro – e ciò, in deroga alla normativa, anche indipendentemente dal numero di lavoratori occupati nella sua azienda e anche sotto il regime del Job Act -.

Ci si domanda allora: in presenza di azioni ostili laddove, tuttavia, manchi l’intento persecutorio attuato mediante condotte reiterate, sussiste una forma di tutela a favore del lavoratore?

La risposta è si.

In questi casi, infatti, viene a configurarsi la diversa figura dello straining che altro non è altro che una forma attenuata di mobbing caratterizzata dal fatto che le azioni vessatorie, pur non avendo il carattere della continuità, provocano, tuttavia, situazioni di stress per il lavoratore che, integrando la violazione dell’art. 2087 c.c., vanno comunque qualificate come condotte illecite generatrici di un danno per il lavoratore suscettibile di risarcimento.

Ciò in quanto, il datore di lavoro è tenuto ad evitare situazioni “stressogene” che diano origine ad una condizione che per caratteristiche, gravità, frustrazione personale o professionale e/o altre circostanze possano condurre a questa forma di danno anche in caso di mancata prova di un preciso intento persecutorio.

In definitiva, in questo caso, il datore di lavoro sarà ritenuto responsabile ogniqualvolta l’evento dannoso sia eziologicamente riconducibile ad un comportamento colposo, ossia all’inadempimento di specifici obblighi legali o contrattuali imposti dal mancato rispetto dei principi generali di correttezza e buona fede, che devono costantemente essere osservati anche nell’esercizio dei diritti.

In entrambi i casi, quindi, l’ordinamento appresta una tutela nei confronti del lavoratore.

Resta intenso che tanto nell’ipotesi del mobbing che dello straininig l’onere di fornire rigorosa prova incomberà sempre e soltanto sul lavoratore.

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