PMI, non una questione di prodotto ma una sfida culturale

15 Mag PMI, non una questione di prodotto ma una sfida culturale

La qualità della gastronomia italiana è universalmente riconosciuta come sintesi perfetta di gusto e piacere per la tavola da una parte e salute e benessere dall’altra; tuttavia molti Paesi, e quindi molti mercati, sono ancora lidi inesplorati per l’export nostrano, che stenta a decollare nonostante l’ottimo background. Così beni di qualità inferiore superano quelli italiani, che soccombono soprattutto per la scarsa conoscenza da parte dei fruitori esteri della natura del prodotto e delle sue caratteristiche.

Rientra quindi in gioco l’informazione, con tutte le sue potenzialità: perchè esportare semplicemente un prodotto, quando oggi si può esportare la cultura di quel prodotto?

Un esempio per tutti: l’olio d’oliva. Condimento principe della dieta mediterranea, è uno degli alimenti per cui la produzione italiana è rinomata in tutto il mondo, o quasi. Nel “quasi” rientrano proprio quei Paesi che non posseggono, per motivi storici e geografici, una cultura gastronomica consapevole: non conoscono le proprietà dell’olio d’oliva e le sue diverse qualità (vergine, extravergine, etc.), le differenze tra questo e, ad esempio, l’olio di semi e, ancora, non apprezzano i vari impieghi che dell’olio d’oliva possono farsi in cucina e altrove.

La svolta dell’export alimentare italiano risiede nella comunicazione: le Pmi possono e devono sfruttare le innumerevoli risorse digitali per promuovere la cultura e la tradizione di un determinato prodotto. Sarebbe determinante, ad esempio, spiegare come l’olio extravergine d’oliva rappresenti la migliore fonte di grassi(lipidi) necessari per il nostro organismo, prevenendo le malattie cardiovascolari e proteggendo il nostro fegato; consigliarne l’utilizzo migliore in cucina, nel rispetto della dieta mediterranea, esempio unico di alimentazione ricca, varia e completa; trasmettere la passione e la meticolosità del produttore, aprendo una finestra digitale sui luoghi della raccolta o della spremitura (i frantoi).

L’auspicio (e l’obiettivo) è che questi Paesi non solo accolgano i prodotti italiani, ma imparino anche ad utilizzarli; la valorizzazione del food made in Italy passa dalla diffusione della cultura del mangiar bene. È questa la sfida: l’impresa non vende un prodotto finito, asettico, ma diffonde un’esperienza, che evoca storia, colori ed immagini; così si esporta un modo di vivere e di intendere il cibo e si realizza un vero scambio globale, ma soprattutto si crea consapevolezza tra i fruitori. L’ acquirente estero non solo saprà da dove viene cosa mangia, ma anche come è fatto e come si usa! Qui sta la forza della connessione tra gli individui e dei social media, che rendono continuo e accessibile a tutti questo processo di educazione e sensibilizzazione del consumatore: non una coincidenza che lo slogan della prossima esposizione universale, Expo 2020 a Dubai, sia proprio “Connecting minds, creating the future”.

La crescità economica del Paese passa dunque dal riconoscimento della differenza e delle sue declinazioni, come la miriade di tradizioni gastronomiche delle nostre regioni: le sub culture non sono più vittime sacrificali della nuova società globalizzata, ma ponte tra tradizione ed innovazione.

La rivoluzione della connessione permanente garantisce una globalizzazione delle oppurtunità, dove le piccole realtà non perdono la propria identità, ma risplendono sotto i riflettori del mondo digitalizzato, in cui i finlandesi sapranno distinguere tra l’olio d’oliva vergine o extravergine, oppure il giovane emiro saprà che il parmigiano reggiano sulla pasta al tonno è davvero una pessima scelta.

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